Autore: Stefano Ceccatelli
Non c'è quasi poeta del secolo appena concluso che
non abbia messo al centro della sua poetica il tema del dolore.
Da Giuseppe Ungaretti fino ad Alessandro Parronchi, scomparso
proprio in questi giorni, tutti i grandi poeti (e non sono poi
molti), hanno cantato della sofferenza, spesso nella sofferenza.
D'altronde, questo era quasi inevitabile in un secolo come il
Novecento, che purtroppo è stato testimone di così
tante catastrofi.
Fra i grandi poeti italiani del secolo scorso ce ne è tuttavia
uno che mi sta particolarmente caro, anche perchè nato
a due passi da casa mia.
Mario Luzi, in effetti, era nato a Castello, una piccola frazione
di Firenze, proprio nel 1914, lo stesso anno dei suoi amici e
concittadini Parronchi e Bigongiari (oltre che di Don Barsotti).
Sarà che io a Castello ci cammino spessissimo, e che quindi
condivido con Luzi gli stessi paesaggi, le stesse albe e gli stessi
tramonti, soprattutto lo stesso vento impetuoso (come è
presente il vento in tutta la produzione poetica di Mario Luzi!),
qualunque ne sia il motivo, ritrovo nella sua sensibilità
dei tratti che me lo rendono, fra gli altri, un poeta assai vicino.
In questo breve articolo vorrei aprire una discussione su tre
sue poesie, tratte dalla raccolta "A onor del vero"
(1957), che hanno, a mio avviso, alcuni tratti in comune.
Si tratta di "Versi di ottobre", "Las animas"
e "Epifania".
Tutte e tre queste poesie risalgono agli anni 1952-55, vale a
dire al tempo in cui Luzi, insegnava ancora in un Liceo scientifico
fiorentino.
Il tema comune a queste poesie, che vorrei qui mostrare, è
il tema della "notte", dell' "ombra", del
"buio".
Prendiamo l'attacco di "Versi d'ottobre":
"E' qui dove vivendo si produce ombra, mistero/ per noi,
per altri che ha da coglierne e a sua volta/ ne getta il seme
alle sue spalle, è qui/ non altrove che deve farsi luce."
(vv.1-4).
L'ombra, il buio qui evocati dal poeta, attendono la luce, ma
la luce deve essere colta già da qui, da questa nostra
vita. Non è ancora luce piena ma, per chi sa vedere, è
già possibile scorgere i primi bagliori.
La vita del poeta non è priva di dolore e di tristezza
("siedo presso il mio fuoco triste, attendo/ finché
nasca la vampa piena o il guizzo/ sul sarmento bagnato della fiamma"
vv.10-12), ma è proprio da questa sofferenza, personale
e comunitaria, che, misteriosamente ma con assoluta certezza,
nasceranno dei frutti: "Quel che verrà, verrà
da questa pena" (vv.9/19). Così, il "seme"
che Luzi ha evocato all'inizio ci riporta al passo evangelico
che è probabilmente indispensabile per la comprensione
di questa poesia: "In verità, in verità Io
vi dico che se il seme del frumento, caduto in terra, non muore,
rimane solo; ma, se muore, produce molto frutto" (Giovanni,
12,24).
Questi temi tornano anche nella seconda poesia luziana, "Las
animas", che con il titolo rimanda alla festa dei morti del
2 novembre 1954. La poesia è, infatti, una meditazione
sul tema della presenza-assenza dei morti nella nostra vita ("ora
che tutto intorno la vallata/ festosa e triste perde vita, perde/
fuoco, mi volgo, enumero i miei morti" vv.8-10).
La vita, sostiene Luzi, produce poca luce. Viviamo in penombra,
come fossimo immersi in un sottobosco. Solo un Altro, può
darci quella Luce chiara e inestinguibile che ognuno di noi, nel
più profondo del proprio essere, desidera.
Tuttavia già in questa vita, qualcosa si rischiara.
Leggiamo insieme questa strofa che mi sembra bellissima:
"Un fuoco così mite basta appena,/ se basta, a rischiarare
finché duri/ questa vita di sottobosco. Un Altro,/ solo
un Altro potrebbe fare il resto/ e il più: consumare quelle
spoglie,/ mutarle in luce chiara, incorruttibile" (vv. 26-31).
La poesia si conclude con un'invocazione che è quasi una
preghiera a Dio, che dia pace ai vivi e ai morti insieme, in una
sola fiamma che bruci e trascenda la vita ("Requie dai morti
per i vivi, requie/ di vivi e morti in una fiamma. Attizzala"
vv.32-33).
La terza e ultima poesia che intendo prendere in considerazione
in questo articolo è la bella "Epifania", pressappoco
contemporanea alla poesia vista prima.
E' la notte dell'ultimo dell'anno del 1954. Il poeta si sente
sospeso fra un passato pronto a essere messo in archivio e un
futuro che ancora non si conosce. E' come essere sospesi fra morte
e speranza, tra turbamento e vertigine.
Leggiamo l'inizio della seconda strofa, che è splendida,
e vediamo come il tema della notte che non ha oscurità
incontrato precedentemente, si riaffacci qui con profonda risonanza.
"In una notte come questa,/ in una notte come questa l'anima,/
mia compagna fedele inavvertita/ nelle ore medie/ nei giorni interni
grigi delle annate,/ levatasi fiutò la notte tumida/ di
semi che morivano, di grani/ che scoppiavano, ravvisò stupita/
i fuochi in lontananza dei bivacchi/ più vividi che astri.
Disse: è l'ora" (vv. 13-22).
Ritorna il tema evangelico del seme che deve morire per fruttificare
e ritroviamo questa luce tenue in lontananza che comunque serve
da riferimento in quel viaggio notturno che è la nostra
vita.
L'anima del poeta rievoca un altro viaggio: quello dei Magi verso
la culla del Bambino. Il poeta misteriosamente sente nella sua
anima che l'evento della Natività sta di nuovo per aver
luogo: "Ci mettemmo in cammino a passo rapido/ per via ci
unimmo a gente strana. Ed ecco/ il convoglio sulle dune dei Magi/
muovere al passo dei cammelli verso/ la Cuna. Ci fu ressa di fiaccole,
di voci" (vv. 23-27).
Va bene anche far parte della "retroguardia frettolosa"
del convoglio, canta il poeta; l'importante è unirsi a
questa schiera di persone che seguono la stella della Verità
e della Vita.
Della moltitudine di persone che hanno intrapreso questo viaggio,
i più sono morti e ora riposano nella Pace di Dio. Ma anche
i vivi camminano sicuri e non ondeggiano al vento perché
le loro mani sono rivolte alla Luce.
La vicenda di fede e salvezza evocata nella poesia non ha perduto
nulla della sua attualità: "Chi andò, chi recò
doni/ o riposa o se vigila non teme/ questo vento di mutazione:/
tende le mani ferme sulla fiamma,/ sorride dal sicuro/ di una
razza di longevi./ Non più tardi di ieri, ancora oggi"
(vv.31-37).